Inizio molto volentieri questa collaborazione dedicata agli iscritti del Canon Club Italia, alcuni dei quali ho avuto il piacere di conoscere nel corso del meeting tenutosi a Roseto degli Abruzzi nello scorso mese di ottobre.

Ringrazio innanzitutto Domenico Addotta e tutto il gruppo degli amministratori per avermi invitato a partecipare all’attività del Club in qualità di consulente. Come forse alcuni di voi sanno, mi occupo principalmente di post-produzione e ritocco fotografico, con un occhio di particolare riguardo a quella splendida materia che è la correzione del colore, o color correction se vogliamo usare il termine anglosassone. Dal momento che ne parleremo spesso, da qui in avanti la chiamerò CC, scelta che mi sembra opportuna visto che queste sono anche le iniziali del nostro Club!

Vorrei iniziare quella che spero sarà una lunga serie di articoli e ragionamenti attorno alla materia della CC con un argomento che ritengo importante. Ho spesso la sensazione che in Italia esista una notevole difficoltà a mettere a fuoco di cosa la CC si occupi, principalmente perché spesso viene confusa con la gestione del colore, o color management che dir si voglia. Penso che il motivo principale di questo equivoco sia puramente linguistico: “correzione” e “gestione” sono due parole che hanno in comune la finale, mentre i termini equivalenti inglesi “correction” e “management” sono assai diversi tra loro. Possibile, quindi, che per una debole assonanza si crei una confusione che credo sia importante rimuovere al fine di iniziare con il piede giusto.

Inizierò spiegando a grandi linee in cosa consiste la CC. La prima cosa da dire è che la fotografia presenta due aspetti complementari e non contraddittori tra loro: da un lato è un tentativo di riproduzione della realtà, dall’altro è un modo per re-interpretare la stessa realtà. Se vogliamo, ci sono un lato tecnico e uno artistico. Facciamo un esempio.

Osservate questa fotografia, identificata dalla lettera A:

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Credo che chiunque possa facilmente affermare che la sua tonalità è un po’ fredda. In prima battuta si tratta solo di una sensazione, magari: ma se osserviamo bene, ci accorgiamo che il muretto sullo sfondo ha una tendenza verso il cyan; la pelle del bambino, anche se non è tendente al blu, è poco colorita; e a ben guardare anche il verde delle foglie non è molto convincente.

Perché possiamo affermare questo? Il primo stadio è legato a una valutazione istintiva che facciamo quasi senza rendercene conto. Il muretto potrebbe benissimo essere azzurrino, in realtà: ma quando vediamo uno scatto del genere, d’istinto ci figuriamo quel muretto come bianco, o più in generale neutro; al massimo (salvo eventuali formazioni di muschio o di macchie di umidità) potrebbe essere un po’ giallino. Ma, muretto a parte, il nostro istinto ci dice immediatamente qualcosa sulla tonalità dell’incarnato, che noi ci aspettiamo più calda di così; e anche sul verde delle foglie, che conosciamo come più tendente verso il giallo che verso il cyan.

Per un confronto, osservate ora la versione B dello stesso scatto:

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Il muretto è sostanzialmente neutro, l’incarnato è migliore, le foglie assomigliano di più a ciò che ci aspetteremmo di vedere nella realtà di questa scena. L’ultima affermazione è molto importante, e la ripeto perché ci riflettiate: “assomigliano a ciò che ci aspetteremmo di vedere nella realtà”.

Credo che sia molto facile concordare sul fatto che la seconda versione dell’immagine (ottenuta dalla prima con la semplice applicazione di un set di curve in Photoshop) sia una riproduzione più realistica della scena. Posso anche garantirvi, per esperienza fatta, che un gruppo di persone non esperte, richiesto di votare l’immagine migliore tra le due (senza che si dia a “migliore” una specifica definizione), sceglierebbe in maniera schiacciante la seconda.

Questo non significa però che la prima non abbia un suo fascino: l’abbigliamento del bambino ci suggerisce che siamo nel tardo autunno o addirittura in inverno; la giornata è fredda, la mancanza di ombre ci dice che è nuvolosa e il letto di foglie secche evoca, per l’appunto, una stagione fredda e un po’ ostile. La prima foto è delicata, più lunare della seconda che sembra scattata in un giorno molto più luminoso. Come interpretazione della realtà, dunque, la fotografia originale è perfettamente accettabile. Se vogliamo, è un’interpretazione artistica dello scatto (no, in realtà: è ciò che il sensore pensa di avere visto al momento del clic, ma su questo torneremo): e se il fotografo insiste che la fotografia deve tendere al freddo, va benissimo – è una sua lecita e rispettabile opinione. Il punto cruciale, semmai, è che quell’interpretazione non riflette la realtà. Se fossimo stati presenti al momento dello scatto non avremmo visto la scena con i colori della prima immagine, ma della seconda. Se vi viene da obiettare che, a causa del periodo e della giornata la luce è più fredda del normale, vi do ragione. Ma in realtà questo non significa che avremmo mai visto quei colori, perché i nostri occhi sono bravissimi ad adattarsi rapidamente a luci di temperatura colore diversa. È un fenomeno evolutivo: entro un certo range di temperature colore, ovvero di “colore della luce” per dirla in termini semplici, noi filtriamo le dominanti indotte dall’illuminazione. In generale, i nostri occhi e il sensore non vanno d’accordo, e questo è un problema sul quale torneremo.

Mi spingo più in là; nella realtà non avremmo probabilmente visto né la prima né la seconda scena, bensì questa:

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La differenza tra C e B è sottile, ma sostanziale: notate quanta più forma ha il viso in C a causa della maggiore variazione cromatica nella guancia del bambino, quanto la rosa sia apparentemente più nitida, quanto i capelli sembrino più reali. Di nuovo, un gruppo di persone sceglierebbe a larghissima maggioranza la terza versione come migliore: rispetto alla prima, certamente, ma anche rispetto alla seconda.

Le operazioni che portano dalla versione A alla B e dalla B alla C sono di competenza della CC. Potreste obiettare che i colori nella versione C sono sostanzialmente identici a quelli della versione B, ed è vero. Ma in generale la CC si occupa anche di luminosità, di contrasto, di nitidezza. La CC riguarda insomma tutte le manovre che hanno come scopo l’avvicinamento di un’immagine alla realtà. E di questa realtà noi conosciamo i colori, in due sensi: primo, li conosciamo istintivamente; secondo, li conosciamo perché esistono dei precisi intervalli numerici di valori dei colori più diffusi (la pelle, il cielo, la vegetazione, la terra, etc.) che ci permettono di verificare la coerenza cromatica di un’immagine con il mondo che ci circonda. Di questo certamente parleremo approfonditamente in futuro.

Ora fermiamoci un attimo e parliamo invece di gestione del colore. Supponiamo che vogliate stampare la versione C della fotografia, e che il risultato sia quello che vedete nella versione D: decisamente troppo verde, senza ombra di dubbio. Dove sta il problema? Perché la stampa differisce da ciò che vediamo a monitor?

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Questa è una delle domande che vengono poste più di frequente: ai corsi che tengo, certamente, ma penso di averla sentita almeno una dozzina di volte nell’arco dei due giorni del meeting di Roseto. Segno evidente, questo, che c’è un’esigenza forte di aderenza del risultato all’originale (laddove per “originale” intendiamo la visione a monitor), e anche un po’ di confusione.

La mia prima risposta a chi mi chiede come mai la sua stampante produca un output diverso da ciò che si vede a schermo è una domanda: “il tuo monitor è profilato?”. Il più delle volte mi viene risposto di no; alcune persone non capiscono neppure il termine “profilato”. Cerchiamo di capire cosa significa, partendo dall’inizio.

Devo innanzitutto darvi una cattiva notizia, che in realtà non è poi tanto cattiva ma che per vari motivi oggi sembra tragica. Qualcuno di voi avrà forse utilizzato una macchina fotografica analogica a pellicola; e in tal caso quasi certamente avrà scattato delle diapositive. Le diapositive sono, per l’appunto, trasparenze positive a colori destinate principalmente alla proiezione. Possono anche essere stampate, naturalmente: il sistema principe fino a poco tempo fa si chiamava Ilfochrome (in origine Cibachrome), e forniva risultati addirittura migliori rispetto alle stampe da negativo. Nessuno al mondo, però, pretendeva che il risultato della stampa da diapositiva fosse paragonabile a quello che si otteneva proiettandola con un ottimo proiettore su uno schermo bianco professionale. Nessuno lo pretendeva perché questo è, semplicemente, impossibile: i due processi di visualizzazione sono totalmente diversi. Semplifichiamo: prendete una diapositiva di grande formato e ponetela su uno schermo bianco retroilluminato. La state osservando per trasparenza: la luce la attraversa e colpisce il vostro occhio. Ora stampatela: la stampa diffonde la luce, che colpisce il vostro occhio. In nessun modo riuscirete a trasferire sulla carta tutta la gamma dinamica della pellicola invertibile, che è enormemente superiore a quella che la carta può riprodurre.

Noi vediamo gli oggetti opachi perché la luce li colpisce e ne viene riflessa o diffusa. Gli oggetti hanno la caratteristica di riflettere alcune componenti della luce, assorbendone altre: solo un oggetto perfettamente bianco riflette o diffonde, con pochissimo assorbimento, praticamente tutta la luce che lo colpisce. A seconda delle componenti che vengono riflesse (la loro qualità e la loro quantità) percepiamo un colore piuttosto che un altro, in tutte le sue caratteristiche – tinta, saturazione e luminosità. Nessun pigmento, però, e tantomeno nessun supporto, sono in grado di produrre colori brillanti (e, soprattutto, una gamma dinamica estesa) come quelli che possiamo percepire per trasparenza. Tentare di riprodurre certe saturazioni su carta fotografica è pia illusione; e questo dipende sia dai coloranti sia dall’inevitabile impurità del colore del supporto cartaceo, che definiamo “bianco” ma che bianco in realtà non è mai.

Per qualche motivo, oggi si pensa che sia possibile stampare su carta esattamente ciò che si vede a monitor. Il ritornello è noto: “la stampa dev’essere uguale al monitor”. Bene, dimenticatevene: non è possible, punto. Non in senso stretto, perlomeno.

Il nostro scopo non è quello di riprodurre su carta con assoluta fedeltà ciò che vediamo su un dispositivo retroilluminato come un monitor, ma avvicinarci il più possibile a una resa ragionevole di colore e contrasto, in armonia con ciò che il monitor ci mostra.

Torniamo alla versione D della nostra fotografia. Vi ricordo che nel nostro modello è la versione stampata. Il problema è questo: voi a monitor vedete C, e in stampa ottenete D. Questo non è, naturalmente, la “resa ragionevole” di cui vi parlavo. Supponiamo che mi interpelliate in merito a questo problema. Possono esserci due casi di massima, con una serie di sfumature intermedie.

CASO A: il monitor riproduce fedelmente i colori e la stampante no.
CASO B: il monitor non riproduce fedelmente i colori e la stampante sì.

Nel caso A, ipotizzando che la stampante funzioni correttamente, c’è un problema di profilazione. Quelli che vedete sono i reali colori dell’immagine, ma quando i dati digitali vengono trasformati in gocce d’inchiostro dalla vostra stampante, qualcosa va storto. A questo c’è rimedio, e ne parleremo a breve.

Nel caso B, invece, la fotografia NON ha i colori corretti, ma il monitor ve li mostra come tali. Avete corretto la vostra immagine a occhio, ma in realtà l’immagine è troppo verde: la vostra stampante non mente, in questo caso, e riproduce quello che l’immagine contiene. È il vostro monitor che è troppo magenta, e vi fa vedere come cromaticamente corretta un’immagine verdognola. Se non ci credete, guardate qui: la versione E dell’immagine è praticamente identica alla C, ma l’ho ottenuta simulando il comportamento di un monitor tendenzialmente troppo magenta sull’immagine D. Riuscite a vedere differenze significative tra le versioni C ed E di questa immagine?

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Se siete confusi, avete dei buoni motivi per esserlo. Il problema è oggettivamente annoso. Proviamo a fare questo: con il contagocce di Photoshop andiamo a misurare il colore più o meno nel centro della rosa. La lettura nella Palette Info è la seguente: 213R 127G 151B. Questo è sensato: molto rosso, verde al minimo (nel senso: la minore tra le tre componenti), blu parecchio più alto del verde ma più basso del rosso. In più, un colore piuttosto luminoso, perché i numeri sono elevati. Eccolo qui, nell’immagine F: questo colore è un rosa – come ci aspettiamo.

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Ma basandoci solo sui numeri, possiamo dire anche esattamente di quale rosa si tratta? Ovvero definire in maniera univoca la sua tinta, la sua saturazione e la sua luminosità?

No, non possiamo. Non possiamo perché non abbiamo specificato in quale variante dello spazio colore RGB stiamo lavorando. In uno spazio RGB diverso il colore definito da quei tre numeri potrebbe essere questo:

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Strano, no? Stessi numeri, colore diverso.

In realtà non è strano se ammettiamo che i profili colore (questo è il nome dei “dizionari” che caratterizzano l’espressione di un colore all’interno di una certa variante di RGB) siano come lingue diverse. Come in due lingue diverse la stessa sequenza di lettere può significare cose diverse, lo stesso avviene negli spazi colore. “Pain” significa “pane” in francese, ma “dolore” in inglese: allo stesso modo la stessa terna di numeri può esprimere colori diversi in spazi colore diversi.

Questa è una discreta impasse, ma possiamo uscirne. Esiste un metodo colore, in Photoshop, che ha un unico significato e non dipende da alcun profilo: si tratta del metodo Lab, che tra le tante funzioni ha quella di fungere da traduttore universale per i numeri che devono passare – si spera indenni – da uno spazio all’altro. Di questo parleremo in futuro, ma sappiate che questo spazio esiste ed è assai importante. Il colore del primo campione riportato qui sopra misura 63L 36a 2b, in Lab; il secondo 68L 56a (1)b [un numero tra parentesi indica un numero negativo: quindi (1) significa in realtà -1].

Dove voglio arrivare con tutto questo? Solo a darvi un’idea intuitiva della necessità di un profilo colore: se il vostro file contiene la terna numerica 213R 127G 151B che in un certo spazio colore corrisponde a 63L 36a 2b, sarebbe auspicabile che il vostro monitor vi mostrasse un colore pari a 63L 36a 2b; e anche la vostra stampante dovrebbe mostrarvi qualcosa di molto simile a 63L 36a 2b. Ma nella nostra ipotetica stampa (versione D) quel colore in realtà ha coordinate Lab 68L 23a 8b: ovvero è più luminoso, meno tendente al magenta (controllato dai valori positivi nel canale a) e più giallo (controllato dai valori positivi nel canale b) del colore che cerchiamo.

Cosa si fa a questo punto? L’unico sistema sensato per affrontare è profilare il monitor e profilare la stampante, ovvero creare un flusso di lavoro in cui i principi della gestione del colore siano rispettati. Abbiamo un dizionario universale, ed è il metodo Lab: ma perché le cose funzionino dobbiamo sapere quale lingua parla il monitor e quale la stampante, Questo si può fare utilizzando uno spettrofotometro che, connesso al nostro computer e tramite un opportuno software di gestione, legga dei dati noti e crei un profilo che cerca di realizzare la migliore corrispondenza possibile tra i colori del nostro file, quelli visualizzati a schermo e quelli prodotti in output dalla stampante. “La migliore corrispondenza possibile” non è in generale perfetta al 100% per i motivi esposti prima: ma con un po’ di cura si possono ottenere dei risultati coerenti e soddisfacenti. Quello che è importante è che i dati che vengono inviati ai dispositivi di output (monitor e stampante) vengano interpretati in maniera corretta. I profili di output vanno naturalmente poi gestiti opportunamente al fine di visualizzare (e stampare) correttamente i colori.

Pertanto, le operazioni che compiamo per togliere la dominante azzurra alla fotografia A fanno parte della CC; le operazioni che compiamo sulla fotografia B per renderla più realistica ottimizzandone contrasto e dettaglio fanno di nuovo parte della CC. Ma le operazioni che mettiamo in atto per armonizzare l’output dei colori sui vari dispositivi non fanno parte della CC, bensì della gestione del colore. In altri termini, un file con i colori sbagliati verrà visualizzato con i colori sbagliati a monitor e stampato con i colori sbagliati (gli stessi colori sbagliati!) anche in un flusso di lavoro con una gestione del colore perfetta. Un file con i colori corretti, invece, verrà visualizzato con i colori sbagliati a monitor (e la stessa sorte gli toccherà in stampa) nel caso che il flusso di lavoro non ottemperi alle regole della gestione del colore, o vi ottemperi solo in parte.

Per finire, una cosa che farà rabbrividire i miei colleghi che si occupano in maniera assai più seria di me di gestione del colore. Se mi fate vedere la stampa D e riuscite a convincermi che il vostro monitor riproduce ragionevolmente i colori, in assenza di spettrofotometri, generatori di profili e quant’altro, io farei così:

1) Aprirei l’immagine C tenendo la stampa (D) davanti a me come riferimento.
2) Cercherei di identificare a occhio la dominante introdotta dalla stampante – verde in questo caso.
3) Applicherei una livello di regolazione Curve finalizzato a neutralizzare la dominante verde; l’immagine diventerebbe magenta.
4) Stamperei l’immagine ottenuta e la confronterei con l’immagine a monitor disattivando le Curve.

Probabilmente non otterrei una corrispondenza perfetta tra stampa e monitor; e magari neppure una corrispondenza ragionevole: ma dovrei avere migliorato qualcosa. A quel punto, ripartendo da 1) ritoccherei una curva per migliorare ulteriormente il risultato. E così via, fino a una situazione soddisfacente: una curva, dunque, che falsa i colori dell’immagine allo scopo di renderli fedeli in stampa. Se ripetendo questa procedura su diverse immagini ottenessi dei risultati coerenti, potrei pensare di applicare quella curva a tutte le mie immagini per “pre-correggere” l’output verso la stampante.

Il metodo delineato è grezzo, non strumentale e assolutamente di emergenza. Ma la domanda è: si tratta di gestione del colore? Rispondo senza problemi – assolutamente sì, anche se di basso livello e con tutte le idiosincrasie di una tecnica che si basa su uno dei nostri sensi piuttosto che su rilevazioni strumentali. Ma questa è, a tutti gli effetti, gestione del colore – ovvero modificare i numeri di un’immagine da un lato perché escano corretti dall’altro.

Dal momento che le Curve sono lo strumento di regolazione principe della CC, chiudo con un’ipotesi che mi pare sensata: “chi sa correggere il colore in linea di principio sa anche gestire il colore; chi sa soltanto gestire il colore non necessariamente lo sa correggere”.

Spero che questo esempio possa essere utile per iniziare a comprendere la differenza tra CC e gestione del colore, e a breve vi darò alcune regole per sopravvivere (voi, assieme alle vostre stampe) nel caso che il processo di stampa non venga gestito da voi ma da un laboratorio esterno.

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Grazie per l’attenzione e a prestissimo!

MO / CCC
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