Ogni disciplina contiene in sé alcune particolari dinamiche che la contraddistinguono e in cui ci si imbatte nel momento in cui ci si vuole approcciare ad essa. Nella fotografia, una che trovo particolarmente interessante per più di un motivo è quella relativa al momento dello scatto, ma restringendo il campo agli scatti effettuati al di fuori dell’ambiente protetto della sala di posa, ossia ovunque non abbiamo un controllo diretto su quello che si trova davanti all’obiettivo.

Più che al momento dello scatto in sé mi riferisco agli attimi che lo precedono, a quell’intervallo di tempo che va dal momento in cui ci balena in testa l’idea della foto da realizzare fino al momento del clic vero e proprio, che in effetti rappresenta la fine del processo creativo.
Come sa bene chiunque si sia trovato a scattare foto per il battesimo del proprio nipotino o alla processione del santo patrono, questo lasso di tempo deve essere necessariamente breve, a meno di non volersi veder sfumare tra le mani il momento giusto per scattare, e l’unica possibilità di catturare l’immagine che avevamo in mente.
Ok, ma quanto breve? Quanto tempo abbiamo solitamente per  1) pensare la foto che vogliamo fare,  2) comporre l’inquadratura,  3) settare le impostazioni della macchina nel modo giusto (scelta del diaframma, iso, punto di messa a fuoco, ecc.), e  4) premere il pulsante di scatto?
La risposta è sempre sull’ordine di secondi. Sempre.

Persino nella fotografia di paesaggio, genere fotografico in cui -al contrario del reportage- si potrebbe pensare di prendersela comoda e respirare un po’ di aria buona prima di immergersi nell’oculare della propria reflex, spesso a fare la differenza può essere proprio una manciata di secondi. Manciata di secondi in cui può aprirsi uno squarcio tra le nuvole, che permette al sole di accendere i colori bellissimi della vallata che abbiamo davanti, oppure una manciata di secondi in cui può improvvisamente alzarsi il vento, che comincia a far oscillare su e giù quel ramo che invece avevamo posizionato così accuratamente in quel preciso punto dell’inquadratura… e così via.
Il poco tempo che ci si trova ad avere a disposizione per lo scatto e quanto sia importante saperlo sfruttare è un dato di fatto che qualunque fotoamatore impara a conoscere presto, ed è bene farci pace il prima possibile.

Ma l’aspetto che rende questo momento così peculiare e “speciale” rispetto alle dinamiche che caratterizzano le altre forme d’arte, riguarda il rapporto tra la teoria e la pratica.

La formazione teorica riscontrabile al giorno d’oggi in campo fotografico è quanto di più variegato possibile e spesso è appresa per vie traverse rispetto ai canali tradizionali, ma ad ogni modo, sulla preparazione teorica sono tutti d’accordo su una cosa: deve essercene tanta, il più possibile.
Ecco perché la maggior parte di noi appassionati, una volta lontani dalla pratica sul campo, spende moltissimo tempo sulla teoria nei modi più diversi: corsi, libri, tutorial sul web, riviste, esperimenti, ecc. Nel caso dei bravi fotografi, quasi sempre la loro formazione è durata tutta la vita.
Tirando le somme, è incredibile constatare quanto, nella fotografia, sia gigantesco il divario tra il tempo speso sulla teoria, e il tempo utile per metterla in pratica. Anni di studio, da concretizzare ogni volta in pochi secondi.

E’ affascinante vedere ogni volta in cui si esegue uno scatto come il risultato di anni di passione e di acquisizione di conoscenze concentrati in pochi istanti. Ogni volta è un esame generale, ogni volta la prova del nove, lì si vede davvero quello che abbiamo appreso e quello che invece ci è scivolato sopra finendo dritto nel gigantesco calderone del dimenticatoio.

Una constatazione che da una parte potrebbe risultare suggestiva quanto dall’altra frustrante. Si potrebbe mettere in dubbio l’effettiva utilità di una preparazione teorica, ci si potrebbe chiedere quanto di quel lavoro di apprendimento risulterà poi davvero utile, se poi ogni volta dobbiamo prendere le nostre decisioni nel giro di pochi secondi. Quanto di ciò che abbiamo imparato sulla carta riuscirà poi a tornarci in mente in quei pochi attimi in cui sarebbe effettivamente utile? Non sarà meglio affidarsi all’istinto e al nostro innato senso estetico personale senza scervellarsi troppo?
Chi vi parla, ad un certo punto del suo percorso fotografico si è reso conto di essersi approcciato ai vari generi di fotografia basandosi più o meno sempre sugli stessi canoni estetici, sugli stessi schemi di riferimento, due o tre per ogni genere, che probabilmente erano quelli che mi portavo dietro da prima di approcciarmi alla fotografia e che mi venivano più naturali.
Perché quando il tempo a disposizione è poco, la selezione è spietata e si sceglie di andare sul sicuro, su quello che si sa che funziona. Ma il rischio è appunto quello di ripetersi, e di ritrovarsi con decine di foto diverse nel soggetto ma identiche nella struttura.
Per ovviare a questo ci sono anni di teoria, ma sempre affiancata dalla pratica.

Mi piace vedere la questione come un paragone tra il fotografo e un atleta di salto in alto. Quell’atleta si è esercitato tutta la vita, solo per riuscire a fare quel salto da guinness dei primati, e ha dovuto fare tutto in una frazione di secondo.

“Quando stai scattando hai una frazione di secondo per essere creativo. Il tuo occhio deve cogliere la composizione o l’espressione che la vita ti offre in quel momento, e devi sapere quando fare click. E’ in quel preciso istante che il fotografo diventa creativo… Il momento. Una volta che lo hai perso, se n’è andato per sempre.” – Henri-Cartier Bresson